Piovono kiwi a pecorelle

storie e pensieri

Tokyo 2014-2015

A capodanno 2014-15 mi sono ritrovata per la prima volta fuori dall’Europa. Appena prima di catapultarmi in Kiwiland, ho passato dieci giorni nella nuova casa della mia sorellina adottata. Nel 2019 ci sono tornata, ma qui di seguito è il diario di viaggio di quella prima visita di 8 anni fa, come raccontata giornalmente in quel di fb, e come rimasta nelle bozze qua per 4-5 anni. C’erano delle foto che accompagnavano, ma purtroppo non le visualizza più.

10HappyDays a Tokyo
..senza Fonzie purtroppo!
Tokyo.. Giappone.. Chi l’avrebbe mai detto che sarei finita a queste latitudini?! Io no di certo. Anche la mia ospite non ci crede ancora che io, proprio IO!, sia arrivata fin qui da lei. Eppure abbiamo già passato un giorno assieme. E per far questo ho usato il passaporto biometrico per passare dal controllo elettronico automatico!
E ho scoperto che il Monte Fuji è la montagna solitaria dello hobbit!
Per una rimpatriata questo e altro.

PRIMO GIORNO – domenica 28.12
Jet lag non tanto, dopo aver camminato in giro per diverse ore non è strano che io sia stravolta. Arrivata alle 10 di mattina dopo 14 ore di volo dove non è che abbia veramente dormito ho resistito fino a mezzanotte. Le prime impressioni di Tokyo sono… Tokyo è tokyosa! È la prima volta che esco dall’Europa e vado direttamente fino al paese dove tramonta il sole. Dovrò poi accertarmi che sorga anche (ci penserò l’anno prossimo). A Tokyo c’è tecnologia, ci sono tante cose strane, innovative. Eppure mi sembra una città vecchia. È tecnologica e moderna, ma non nuova. I treni sono ancora vecchi rispetto a molte altre città. Forse mi aspettavo in qualche modo un ambiente futuristico. Invece no. Ecco cosa combinano i film con noi: avevo cominciato a confrontare le città del Giappone con il mondo del futuro. Ci sono tante cose particolari , ci sono le strade sopraelevate nella città (anche se non così futuristiche di aspetto) che passano sopra altre strade, fiumi, … Ci sono schermi e insegne luminose dappertutto, immagini strane, ci sono automobili che vengono posteggiate dal posteggio stesso, ci sono macchinette delle bibite semplicemente ovunque, ci sono taxi verdi dagli specchietti strani e con le portiere automatiche, ci sono prese che non sono quelle degli adattatori che ti vendono in svizzera, c’è gente in mezzo alla strada che non viene assolutamente investita. E poi.. Non capisco assolutamente nulla di quello che mi dicono, tranne arigato (come diamine si scrive traslitterato?) ogni due per tre, ma fa niente. Va bene così, è divertente lo stesso e in qualche modo funziona nonostante la mia ignoranza assoluta in fatto di lingue extraeuropee. E non meno importante è .. Sto imparando a mangiare il riso con le bacchette!
Se vai in Giappone puoi dimenticare più o meno tutto… In albergo ho trovato spazzolino e dentifricio, sapone e shampoo, rasoio, oltre agli asciugamani anche un accappatoio/pigiama. E l’asse del cesso è ovviamente riscaldata. Come anche i sedili nei treni.
Perse nelle stazioni dei treni: fatto!

SECONDO GIORNO – lunedì 29.12
Piove anche in Giappone. Oggi non ho visto così tanti distributori automatici di bibite come ieri. Ma sono dappertutto. O forse mi sono già abituata. Ho riempito un’altra schedina di foto e comincio a non sentirmi più così bassa: in mezzo a tutti questi palazzi enormi siamo tutti piccoli . La città dell’elettronica Akihabara è piena di colori e luci e lì ho trovato neko palla tora. Ma quanto è buono il co co curry? Poi non dimentichiamo che oggi è anche il compleanno di Sakura. E abbiamo conosciuto anche Asari. Due fanatastici felinquilini di Calico. Qui è la cosa più normale passare del tempo in bar a dar da mangiare ai gatti. Che società filofelina
Andare in un cat cafe: fatto!
Andare in un purikura a fare foto kawaii con gli occhioni grandi: fatto! Fotografare un tombino artistico: fatto!
Fermarsi in mezzo a una strada a sei corsie a fare una foto: fatto!
Buonanotte..

DAY THREE – martedì 30.12
Oggi ho scoperto che esiste un gufo cafe! Nyaaaa.. Ho preso anche la metro oggi, ho mangiato un ramen tanto buono buono buono, in un posto bello e tradizionale. Poi sono tornata in albergo perché mi ero dimenticata di rifornire il mio portafoglio di cibo, e qui in giappone non prendono la maestro. Quindi di nuovo tobu tojo line fino a ikebukuro. Le stazioni le so a memoria fra un po’. Alla seconda dopo tokiwadai spesso il treno rimane fermo qualche minuto per lasciare passare i treni diretti. Ciò significa che le porte restano aperte.. e siamo in inverno anche qui! Fortuna che c’è il riscaldamento sotto i sedili!
Oggi ci siamo godute una spa con onsen, concentrandoci sulla parte spa. Ci siamo date al lusso e per un corrispettivo di 40.- franchi c’erano compresi l’onsen con tutte le sue calde vasche con acqua termale, sia dentro che fuori, dove abbiamo passato una buona ora. Poi spazio doccia giappo (seduti) con tutti i prodotti per capelli e corpo, spazio per rimettersi in sesto con phon, prodotti per capelli e viso e orecchie, spazzole a volontà, spazio trucco con tutti i prodotti. Nei 40.- anche una bibita e la cena in un ristorantino carino carino e buono buono con un buon the caldo. E asciugamani e vestiti per girare negli spazi comuni compresi. La nostra faccia ha cambiato completamente tra prima e dopo onsen! Una volta uscite giro sulla ruota panoramica e via, di ritorno a casa, poco dopo le sette, stravolte per il troppo relax.
Mangiato ramen buono buono: fatto!
Stata in un onsen: fatto!
Dimenticato i soldi in albergo: fatto!
Accorgersi di aver dimenticato una cosa importante come il caricatore per la macchina fotografica… Fatto!
Essere sempre più stanca la sera presto: fatto!
Far diventare tutto carino carino, kawaii e nya: fatto!

Buon anno nuovo a tutti, ci sentiamo l’anno prossimo! :)

 Buon anno nuovo!

DAY FOUR & FIVE – mercoledì 31.12.2014 & giovedì 1.1.2015

Grazie a tutti per gli auguri scritti qua e là e che ancora verranno. Non riesco a rispondere sempre visto che sono in giro, ma sono tutti tanto apprezzati!
Ammetto poi subito una cosa: la prima alba dell’anno ce la siamo persa (qui è tradizione guardarla). Però ho scoperto che in pieno inverno alle sette di mattina è già pieno giorno. Negli ultimi giorni ho dimenticato una cosa importante: Tokyo è una città musicale. Per strada i semafori non fanno i soliti rumori da allarme che sentiamo da noi. E hanno almeno due varianti (sempre a ritmo due/uno due/uno). Ogni fermata ha la sua musica diversa come accoglienza e per i vari annunci, e ogni tanto anche un po’ natalizia (cosa che in estate potrebbe sembrare un po’ strana). Ma la cosa più importante: le stazioni cinguettano! Così a caso, di punto in bianco e sottoterra.
Questi due giorni mi sono di nuovo esercitata con l’inglese (il duo come al primo giorno è diventato un trio) e ho visto e scoperto tante cose. Premetto che di cultura giapponese (oltre che di lingua) non ne so tanto (l’avrete già capito) e quello che sto imparando sono tanti pezzi sparsi qua e là.
A Shinjuku Sandra ha vinto una pecorella rosa tanto carina per me. Credo portino fortuna perché le si vede in giro ovunque per l’anno nuovo, che tra l’altro è quello della capra! Al mio prossimo viaggio sarò piena di animaletti portafortuna, portacompagnia e portaricordi. Abbiamo mangiato yakiniku, carne al fuoco, con una griglia dentro la tavola e via si cucina da soli.
Per capodanno abbiamo fatto un miscuglio di tradizioni e.. non tradizioni. Via verso Asakusa dove c’è un grande tempio, poi Skytree dove dovevano esserci i fuochi ma poi nessuno sapeva nulla (nemmeno il giapponese che stava lavorando lì a mezz’ora dal capodanno) quindi ci siamo rispostate in zona Asakusa e via dentro un Hub Pub inglese. Al caldo, sedute, a dormire.. Le altre due soprattutto. Poi ci voleva un Ramen (Ichiran) tanto buono (sempre quello) alle tre e mezza di mattina per ripigliarsi un po’ e siamo finite a Shibuya dove c’era stata festa per strada e abbiamo trovato il devasto. Gente che urla happy new year in mezzo a quegli incroci tanto piccoli che hanno minimo quattro strisce pedonali (ogni tanto anche sette) con le macchine che passano tranquille. Sporcizia ovunque. Casino fatto da giapponesi. Allegra scorribanda di poliziotti in fila interminabile per due che ci è passata accanto sulle strisce pedonali (con il verde noi) trotterellando e sparendo poi per destinazioni ignote. Dopo qualche giorno in cui mi ero abituata a gente tranquilla, strade assolutamente sempre pulite, nessuna preoccupazione continua per ladri, in giro calma, eccetera… be’ diciamo che è stata una visione un po’ strana. Dopodiché casa per due orette e siamo riuscite a dormire in tre in un letto pensato giusto giusto per uno. E ovviamente alle sette e mezza sveglia e via di nuovo in metro perché il primo dell’anno la mattina qua si fa shopping per i saldi più pazzi dell’anno! E le mitiche fukubukuro: borse con dentro merce assortita e sconosciuta fino alla sua apertura dopo l’acquisto. Ovviamente molto saldata rispetto alla somma degli articoli inseriti. Alle due di pomeriggio mi riavvio verso l’albergo, faccio un giretto di mezz’ora e poi dormo qualche ora prima di riuscire s mettermi a scrivere.
Torniamo indietro: Asakusa e il suo tempio. Tutto intorno bancarelle su bancarelle di cibo cibo cibo e qualche altra cosa. Ci si prepara per il nuovo anno, si aspetta (e si mangia). La gente alle 22 è già in fila davanti al tempio più grande (shintoista?) per la prima preghiera dell’anno. Tanta altra gira. Guarda compra mangia fa foto. L’atmosfera è festosa ma tranquilla. Poi poco prima di mezzanotte movimento intorno al piccolo tempio buddista. La gente si sposta, si lascia passare la gente importante e si aspetta. Il conto alla rovescia molto emozionante. Se non ché non avevo la minima idea da che numero fossero partiti quindi nemmeno quanto mancava. Poi le esultazioni e poco dopo il primo rintocco. 108 rintocchi di campana, ognuno fatto da un’altra persona (tutti dall’aspetto importante) ognuno che rappresenta un peccato. Al cancello un fuoco tenuto vivo con bastoncini con tante scritte. Presumibilmente sempre con i peccati, comunque con cose negative, bruciate per non dar loro spazio nel nuovo anno. Accanto al cancello un muro di lanterne bianche con ognuna una scritta, presumo stavolta di auguri per il nuovo anno. Come i rami di pino e i tronchi di bambù che già si trovano da qualche giorno in giro per la città come buon augurio di longevità. Dai rintocchi ci siamo spostate al tempio grande per scoprire come ci andrà il nuovo anno. Una fortunata. Sfortuna sia a me che a Sandra! Io dovrei pure evitare di intraprendere viaggi! I biglietti positivi si tengono, quelli negativi si bruciano o si buttano. Li abbiamo legati assieme a tanti altri bigliettini di gente sfortunata come noi nella speranza che poi vengano annientati.
Davanti al tempio la fila di gente è lunghissima, arriva fino alla strada lungo il largo viale che già contiene tantissima gente e continua oltre l’incrocio girando l’angolo e lungo il marciapiede fino a non so dove. Tranquilli in attesa.
Il nodo fatto ai nostri biglietti di cattiva fortuna sembrano avere funzionato. Prima di dormire abbiamo chiesto alle rune come saranno i nostri anni. I celti sono decisamente più propizi! Un anno positivo adatto al cambiamento, ai viaggi, al trasferimento, di armonia famigliare e in cui anche se mi sentirò un po’ sola ogni tanto farò nuove conoscenze e stringerò nuovi legami importanti. Un augurio migliore di questo non potevo averlo!
Mi rimetto a dormire. Domani sarà un altro giorno pieno di sorprese! Il secondo giorno del nuovo anno
Buonanotte!

DAY SIX – venerdì 2.1
Siamo tornate alla normalità, oggi abbiamo pure battuto il nostro record e alle cinque e mezza avevamo già cenato (il primo giorno abbiamo pranzato alle quattro..) e alle sei ci siamo separate. D’accordo, hanno ragione a dirmi che qui sono ancora più vecchia! Nella stazione di Ikebukuro mi sono pure persa alla ricerca dei macaron a forma di orsetto tanto carini e tanto buoni. Ma non ho potuto provare se da non spiaccicati sono lo stesso tanto buoni, perché non sono proprio riuscita ad arrivare alla zona della stazione che volevo. Ci ho rinunciato e ho preso il treno.
Oggi ho visto ancora gente in giro con una freccia. Vorrei tanto sapere che significato ha (per il nuovo anno). Mi incuriosisce questa cosa. Qualcuno lo sa?
La sfortuna annunciata dal nostro fogliettino ci ha perseguitate oggi: tutto chiuso per il due di gennaio. Pure il palazzo imperiale che oggi era aperto.. alle due e mezza era già chiuso! In compenso abbiamo trovato un parco pieno di gatti rossi
Tornando all’albergo dalla stazione ho trovato in cielo Orione. Mi sono sentita un po’ a casa e ho automaticamente cominciato a canticchiare. Rendendomi conto che da quando sono partita non ho mai aperto bocca per cantare. Forse rimedieremo con un karaoke prossimamente.

DAY SEVEN – sabato 3.1
Nyaaaaaan! Non ci crederete ma oggi sono rientrata in albergo dopo le 21! Olaf però continua a perseguitarmi. Dopo i primi incontri casuali nei primi giorni, ora lo trovo in giro che mi sorride più volte al giorno. Che voglia farsi comprare? Al massimo dei caldi abbracci, comprare no chance! Non dopo che stasera ho trovato il negozietto dei miei sogni (Squoiattola per ora ride ancora di questo cosa). Tanti bei vestiti kawaii ma come piacciono tanto a me, particolari, con decorazioni e laccetti, la commessa simpaticissima che continuava a ripetere kawaii che ci ha salutate con un a domani. Un vestito portato via.. Domani chissà.
La giornata ha cominciato di nuovo all’insegna della sfortuna: se ieri era tutto chiuso oggi era pieno di code interminabili.. Skytree vista in tutte le salse, da sotto. Acquario non messo meglio, fontana al parco ha smesso di spruzzare e quando ha ricominciato il sole ormai era quasi sparito, primo ristorante lasciamo stare… Poi il secondo ristorante (un locale dove la gente va a bere ma ci sono anche tante cose buone da mangiare) neanche un po’ di fila e dopo essermi riempita la pancia di spiedini e robi al formaggio molto buoni ho scoperto il mio nuovo amore perciò la situazione si sta risollevando. Ho pure scoperto il significato della freccia che viene venduta nei santuari scintoisti per capodanno e avrebbe il potere di scacciare gli spiriti maligni.
Qui a Tokyo sto diventando carnivora con tutte le cose buone da provare. Quando torno a casa rischio di fare una dieta vegetariana.
Negli ultimi giorni non ho avuto molti obbiettivi raggiunti. Rimedio subito.
Preso tutti i mezzi di trasporto pubblici di Tokyo tralasciando bici e trasportino con corridore umano (ovvero treni, taxi, metro e bus): fatto!
Far disperare e divertire un giapponese addetto alle informazioni perché voleva assolutamente che noi capissimo ma non sapeva una parola di inglese: fatto!
Trovato una panetteria tanto buona con panini tanto belli: fatto!
Comprato lo zoo a Ueno invece di entrarci: fatto! (Vedi foto)
Aspettato a lungo dei polli di cuore dispersi: fatto!
Sbranato una pecorella del nuovo anno al cioccolato: fatto!
Non saper più parlare né scrivere italiano e creare un sacco di neologismi: fatto!

DAY EIGTH – domenica 4.1
Giornata tranquilla, la domenica. Siamo sempre qua, Sandra e io. Un po’ di nausea per me oggi, ma vabbe’. Si cerca di non pensarci e ormai si sta bene. Finalmente le cose stanno riaprendo e i turisti stanno diminuendo. Di code interminabili non ne abbiamo più viste. Fino a ieri davanti a ogni tempio, tempietto, santuario c’era sempre un sacco di gente in attesa di poter pregare per il nuovo anno. Oggi effettivamente non siamo passate davanti a dei templi, mi pare, ma in generale c’era meno ressa. Una cosa da sottolineare comunque è la disciplina e la calma con cui i giapponesi si mettono in fila e aspettano al loro posto. Non importa se sia per prendere il treno o il bus, o che sia per entrare in un ristorante a mangiare (qui spesso bisogna aspettare un attimo prima di entrare in un ristorantino) o per pregare al tempio. Le persone si mettono in modo ordinato dove devono stare e aspettano come se fosse la cosa più naturale (e bella) del mondo.
Negli ultimi giorni c’erano in giro un sacco di padri con i bambini piccoli. Solo un attimo fa ho scoperto e realizzato che il motivo è che gli uomini lavorano spesso per orari improponibili per noi, tutto il giorno fino a tardissimo la sera, perciò in questi giorni di vacanza ne hanno approfittato. Da noi non ho mai visto così tanti padri in giro da soli con i figli (senza la madre). Ne vedi qualcuno qua e là, ma qua c’era quasi l’invasione.
La moda giapponese non si può riassumere tanto facilmente. Ci sono un sacco di mode anche qui, mode giovanili, stravaganti e meno, estreme e molto classiche. Ci sono ragazze che si vestono come maschi, ragazzi che si vestono molto femminile. Però oggi ho visto il top. In una stazione dei treni mi è passato davanti un uomo abbastanza alto vestito con un kimono tradizionale da donna esattamente come lo avevo visto in vetrina (accanto a uno da uomo) per il nuovo anno. Trucco in viso bianco e rosa. Con tutta la gente che passa per quelle stazioni nello stesso momento solo al secondo sguardo mi sono resa conto che fosse un uomo.
Noi invece abbiamo approfittato di questa giornata ancora di bel tempo per fare un po’ di conoscenza con gli alberelli a palle (pini) fuori dal palazzo imperiale. Abbiamo filmato le coreografie della mia ospite e guida e facendo un po’ di foto tra i pini vari abbiamo conosciuto l’albero 399. Dopodiché cena e sistemare diverse cose. Quante cose avrò ancora dimenticato che avevo pensato di scrivere? Chissà.. metto in carica le batterie della macchina fotografica (ho trovato il caricatore ad Akihabara!) e mi metto a dormire.

DAY NINE – lunedì 5.1
Nono giorno qui a Tokyo. Visto tanti luoghi, fatto tante cose, mangiato tanti cibi. Ma è così poco che sono qui. Ho guardato il passaporto e ho scoperto che potrei stare qui 90 giorni.. Nya.. Allora sì che imparerei qualcosa. Ma il mio viaggio quest’anno ha altra destinazione.
Una cosa che non ho ancora detto è che Tokyo è una città di bici. È strapieno di ciclisti e stracolmo di bici posteggiate ovunque. Le macchine sono così attente e il traffico, nonostante le strade immense, così ridotto che la gente pedala tranquillamente per le strade di questa piccola cittadina di provin.. hem.. di questa metropoli!
Altra particolarità: per strada non si può fumare, nei ristoranti sì. Ma sono pochissimi quelli che fumano nei ristoranti. Probabilmente anche perché non c’è la tradizione di andare a mangiare e restare a chiacchierare. Di solito si entra, si comanda, si mangia e si esce. Per strada però, perlomeno in zona shinjuku, trovi dei smoking point che sono un po’ riparati e separati dal resto.
Vi siete mai lamentati di quanto i giovani oggi siano attaccati al telefono e ognuno per conto proprio seduti tutti assieme? Qui sono tutti con il telefono perennemente in mano, non solo i giovani. Ma si parlano lo stesso. È la quotidianità.
C’è anche la musichetta delle cinque per strada da queste parti.
Esistono bar tranquilli con musica jazz di sottofondo e due gatti che ronfano beatamente su due sedie agli angoli del locale (e non è un cat cafe, ma si chiama die katze, in una stradina laterale di shinjuku).
Poi in queste strade forze oscure sono all’opera, e ci attraggono molto prepotentemente. Abbiamo pure ceduto davanti a un orso, una tigre e un coniglio. Ma i dolci qui sono così buoni! E così belli! La tartaruga è stata la mia colazione stamattina: panino dolce e verde. Buona la piccola turtle. Domani sarà l’ora fatidica di un orso che ha perso la testa sul mio comodino due giorni fa. Mentre ora è finita per l’orsacchiotto macaron.
Dopo vado a dormire e a riposare la mia testolina dolorante sognando forse il bel panorama visto (gratuitamente) stasera dal 45esimo piano di un palazzo…
Ciao ciao

DAY TEN – martedì 6.1

Giorno di ozio in quel di Tokyo. Nuvole, ventaccio caldo, sole, poi ventaccio e nuvoloni e pomeriggio di pioggia. Che ha lasciato il posto a un ventaccio freddo la sera.
Ne abbiamo approfittato per risolvere un po’ di questioni tecniche. Casa di Sandra è diventata un servizio di sartoria (mi ha ricucito la borsa che si stava staccando da tutte le parti), un servizio tecnico e informatico di telefonia mobile (con conseguente sistemazione del mio telefono) e specializzato in vendita e formattazione di piccoli pc da viaggio, oltre che un’agenzia di viaggio con apposita postazione per sistemare il mio arrivo alla prossima destinazione che si stava complicando. Non da ultimo è diventata anche una scuola di lingue internazionali.
Così risultò scandalosamente che non feci che qualche foto in tutta la giornata, e tutte all’interno di questo stupendo studio multitasking.
Stesso luogo dove si rischiò il delirio cronico in codesta giornata, e dove ciugnammo allegramente tra un neologismo e l’altro.
E dove ricordammo il fattorino del giorno addietro, in bici allegramente pedalante con un vassoio con due ciotole in spalla…
Andate in un kombini sotto la pioggia a prendere dolcetti giappo ciugnati nell’immediato dopo: fatto!

DAY ELEVEN & BACK
Giovedì 8 gennaio. Sull’aereo di ritorno a casa. Tempo abbastanza per scrivere il mio ultimo happy days. Non ci starò per molto, a casa, ma è comunque strano. Mi sembra passata un’eternità dal primo giorno a Tokyo. D’altra parte.. Finalmente casa.
Ieri l’ultimo giorno, gli ultimi giri per Shinjuku, visita al Tokyo national museum a Uedo, l’ultimo tramonto giapponese. Stamattina qualche danno in programma (una pecorella abbandonata in albergo e un the sui miei pantaloni in aereoporto) prima di salire sull’aereo (dove ho preferito non aprire il sacchettino della salsa per l’insalata sul quale c’era anche scritto di fare attenzione perché potrebbe schizzare sui vestiti all ‘apertura).
A inizio viaggio sono riuscita a chiamare il paese dove sorge il sole, quello dove tramonta.. Ce la posso fare anch’io, ce la posso fare!
Non ho visto mendicanti per la città in questi giorni, e pochissime persone per strada. L’Europa in confronto è un ammasso di povertà. Non ho avuto paura per queste strade enormi, né mi sono sentita a disagio con la popolazione di questa metropoli (tranne in certi momenti a capodanno, abbiamo fatto una foto con un giapponese, non lo avevo ancora scritto mi pare, ma era il più simpatico della serata). È gente tranquilla e gentile qui. Sembra che i giapponesi si mettano a urlare unicamente se sono commessi di negozi, e molto tanto parecchio durante i saldi!
Chissà quando tornerò qua. Chissà se mai tornerò in Giappone. In ogni caso anche se questi happy days sono nati un po’ per scherzo è stato divertente fare un riassunto di quello che abbiamo combinato. È stata un’occasione per segnarmi questa esperienza. So che la maggiorparte di chi ha letto non avrà capito un bel niente.. Tranne che abbiamo mangiato tutto il tempo e delirato un po’!
E ora io che non avrei mai creduto di arrivare fino in Giappone e sono una che preferisce le lande desolate alle grandi città, sto tornando a casa dopo undici giorni passati a Tokyo dove ho amato la cucina, ho adorato la città, ho ammirato una nuova cultura, ho adottato un po’ di sano kawaii dove prima sarebbe stato tutto kitsch, sono rimasta sorpresa scioccata stralunata da diverse cose. Ho scoperto che non è poi così irraggiungibile neanche per me una cultura e una lingua asiatica, ora che mi ci sono confrontata. Sarebbe fattobile (o forse fattibile) se volessi, anche se più complicato per me che le lingue europee.
Ma soprattutto dopo novanta giorni di lontananza le due Squoiattole erano di nuovo on tour! Nyaaa
Squoiattole on tour reloaded andata a meraviglia con tanti strafalcioni e neologismi: fatto!
Grazie alla mia squoiattola, torno a casa arricchita… di tanti “oooh “, “mi pare giusto”, “cos’è questo?”, … di un vestito una maglia e un giacchettino in più, di un computer, di un telefono funzionante, di un pacchetto di Le Caramelline, … di tante cose carine viste, di tanti nya e cuoricini e dolciosità simili in più, di un po’ di parole e conoscenze culturali in più, … E di undici fantastici giorni in compagnia tra abbuffate rilassamenti bagnate danni risate mal di testa camminate :))


Il giocompito della gratitudine

Negli ultimi due o tre mesi, dovunque noi siamo, il nostro nuovo minuscolo in comune migliore amico ci ha immerso in un ambiente pesante a volte, ansioso altre, triste altre ancora. Ma ci sono state tante cose che hanno portato il sorriso, il sollievo, la speranza, conoscenza, scoperte, poesia.

Tra le altre cose, nelle ultime cinque settimane ho avuto la fortuna di avere un appuntamento settimanale con radioluna. Presentato da una persona che mi reputo fortunata di conoscere e avere tra gli amici, poiché poeta, cantastorie, scrittore, attore, regista, artista. E non solo di lavoro, ma anche di anima. Luca Chieregato è una persona con un anima splendente, un sorriso pronto e un abbraccio abbracciante. Per non parlare delle miriadi di parole che ti trasportano in mondi fantastici e che non hanno età, creando pure ricordi. Dicono verba volant, ma certe prendono il volo e non se ne vanno, restando a svolazzarti attorno per quando ne hai di nuovo bisogno. O forse per ricordarti di un povero grigio.

I suoi giocompiti mi fanno pensare. Era destino che lo incrociassi quel giorno in riva al lago mentre cantava le sue storie? O il destino era che scegliessi di fermarmi? O che incrociassi il suo lavoro nuovamente mesi dopo e lo riconoscessi? Ed era destino che io finissi a testa in giù? Mi fa pensare che il destino è fatto di scelte che ti portano dove ti trovi ora. Una combinazione di quanto il mondo ti offre, e quanto tu decidi e scegli di fare con questa offerta. O forse mi sto semplicemente perdendo tra parole insensate. Ma prendersi il tempo per pensare ai misteri dell’esistenza, non è una brutta scelta affatto.

La quarantena è stato un periodo di riscoperta, e rafforzamento. Ho rafforzato per esempio la realizzazione che addossarmi un senso di colpa per prendere tempo per me stessa in cui la pigrizia è regina assoluta, non mi porta da nessuna parte. Regalarmi questi momenti come meritati, mi permettono di godermi il relax, ricaricare le batterie, e diventare attiva molto prima, risparmiando tempo invece di “sprecarlo”. Ho riscoperto quali attività mi rendono felice e mi aiutano a bilanciarmi, a togliere ansia e magari pure a rendermi un po’ orgogliosa di me stessa.

Dopo le prime due settimane di rigenerazione, mi sono ritrovata in un limbo di tranquillità, gratitudine, ansia e demotivazione. Sono ormai tornata a lavoro, in un mondo strano e diverso, ma tanto bello. E ancora i pensieri mi riempiono la testa, con tante domande, e poche risposte. Ma di qualcosa sono certa: il cuore è pieno di gratitudine e ho deciso di prendere carta e penna (o meglio – tastiera e schermo) ed eseguire un vecchio giocompito compilando una lista con quanto sta riempiendo questa mente affollata. Leggetela o meno, è un bisogno mio di vederla in nero su bianco (o bianco su nero).

Sono grata:
– per il supporto della mia famiglia nonostante io me ne sia andata lontana
– perché la mia famiglia e i miei amici in Svizzera, Italia e dovunque, durante questa pandemia, stanno bene e non hanno malesseri maggiori
– per i miei colleghi e superiori a lavoro, che nonostante tutte le difficoltà rendono il mio lavoro un lavoro straordinario
– per i bambini con cui lavoro, perché mi mostrano e ricordano la bellezza della vita e mi permettono di ridere, scherzare e giocare
– per la fortuna di poter lavorare con bambini
– per il luogo fisico in cui vivo, che è semplicemente mozzafiato
– per le persone che incontro e con cui scambio brevi conversazioni, o anche solo un sorriso o un saluto
– per la salute (nonostante gli acciacchi)
– per il destino, o qualunque cosa sia, che mi ha portata in Nuova Zelanda a scoprire me stessa, trovare un paradiso, e conoscere il mio compagno
– per la tecnologia che ci tiene in contatto con le persone importanti
– per l’arte che viene creata e condivisa
– per l’umanità che vedo in giro
– per la bellezza che riesco a vedere
– per la fortuna di potermi permettere un tetto, cibo, e viaggi
– per la mia seconda famiglia qui in Nuova Zelanda
– per le mie crisi psicologiche e fisiche che mi hanno buttato a terra e fermato e così facendo mi hanno insegnato e ancora mi insegnano tante cose su me stessa e sul mondo
– per tutte le mie esperienze, buone e brutte, perché mi hanno portata in un posto dove sto bene
– per la nostalgia di casa, perché mi permette di non dimenticare da dove vengo, e di apprezzare molto di più quanto ho qua e quanto ho avuto prima
– per l’empatia estrema, perché se il negativo è amplificato, lo è pure il positivo
– per i momenti ardui, perché mi mostrano chi mi è vicino e cosa è importante
– per le lingue che ho imparato perché mi raccontano tanto di chi la parla
– per il mio spirito positivo che mi tiene a galla
– per la mia pazienza che mi evita tanta rabbia
– per ogni sorriso
– per le lacrime
– per… radioluna che mi accompagna per un’ora a settimana, con le sue parole, note, giocompiti e storie della buonanotte
– per…


Brezza fresca agli antipodi

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È sempre interessante quanto tutto sia relativo. Ma l’intensità delle cose non significa che si percepiscono certe cose differentemente. Facebook mi ricordava l’altro giorno di un pensiero che avevo scritto tempo fa.

17 aprile 2012

il vento è forse l’unica forza in grado allo stesso tempo di abbattere muri e di accarezzare un moscerino con dolcezza, e allo stesso modo ti trascina in un vortice di meraviglia e fascino poiché ha più forza nella sua dolcezza che nella sua brutalità

 

Quando ho riletto queste parole, immediatamente mi sono chiesta a cosa mi riferissi. C’era appena stata una tempesta a casa? Cosa intendevo con forza bruta? Probabilmente stavo guardando fuori dalla finestra in salotto. Ricordo tanti pensieri e post scritti dopo aver riflettuto su qualcosa guardando fuori da quella finestra. Quella porta sul giardino, e finestra sul mondo. Quel luogo così conosciuto della mia vita, di passaggio e stallo, ma così insicuro nel suo futuro. Come mi sentirò quando i miei piedi si poseranno di nuovo su quelle piastrelle? Ci sarà ancora lo stesso vetro da cui ho guardato fuori per 25 anni della mia vita?

Ma continuo a guardare alla data e meravigliarmi. Perché sono parole che potrei scrivere ora. Ora che sono in questa capitale a testa in giù e ho molto più vissuto la forza e brutalità del vento. Vero che ci sono posti dove le tempeste sono molto peggio. Penso agli uragani e tornado di stagione nel pacifico. Ma per quanto il vento dall’antartide mi entri nelle ossa e non esce più, un qualche miracolo mi ha fatta accostumare alla sua forza.

Quando tutto trema, e quando non solo non riesci a stare in piedi, ma devi afferrare il palo della luce per non essere sbattuta indietro (o avanti), quando vedi oggetti di ogni genere volare per le strade, quando sei in macchina e senti il vento spostarla. Quando non è un terremoto, è vento. Quando è spesso. Ma spesso non è una tempesta, è solo vento. Quando la gente arriva da fuori, si lamenta di quanto sia ventoso, e ti rendi conto solo in quel momento che ci sia vento. Quando ti sei abituato alla domanda “è un terremoto o solo vento?”. Perché quando arriva da nord, quelle sberle in faccia ti fanno sentire viva, ti fanno sentire il respiro della Terra. E quello da sud, be’, ti ricorda che la Terra comanda, e ti rende grata che non ci sia acqua in quell’aria gelata.

La forza di quelle folate ancora accarezza gentilmente quelle farfalle che sono un miracolo, una vera creazione divina.

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Modelli inaspettati

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C’è una cerchia di persone che ho sempre pensato, e ancora penso, che quando raggiungono un certo livello nella loro carriera, non possono fare altro che vendere i propri ideali e qualunque etica abbiano. Mi sto ricredendo.

Sto parlando di politici. Persone che per raggiungere i loro scopi compromettono, spesso troppo. E a un certo punto dimenticano perché sono lì e si fanno mangiare dal potere (e dai soldi).

Ebbene. Negli ultimi tempi mi sto ricredendo. Mi sto rendendo conto che non sono tutti così. Negli ultimi tempi.. In realtà mi sa che è parecchio, ma non mi sono veramente resa conto del significato. Partiamo con ordine.

Ero al Liceo quando ho cominciato a interessarmi di Nelson Mandela e della sua storia. Un’ispirazione enorme, di cui ai miei coetanei sembrava non poter interessare meno. Lottare con gentilezza. Una storia che sembrava uscire da un libro di racconti, non da un libro di Storia. Ma lui era lì, c’erano biografie, foto, film, documentari, video, testimonianze. E io ero in quella fase della vita in cui avevo uno spirito un po’ attivista. Passiamo oltre.

Barack Obama diventa presidente degli Stati Uniti d’America. Una figura in una delle posizioni più critiche e pericolose al mondo (vedi il presidente attuale.. mhmhem). Eppure ha rivoluzionato la vita a miriadi di cittadini, e ha rivoluzionato la visione del mondo esterno degli Stati Uniti. E con lui, la first lady Michelle Obama. Li stimo, entrambi. Per il coraggio, e la gentilezza mostrata. E l’onestà, a tratti. Ma gli Obama li ho sempre visti un po’ da lontano. In parte perché quando sono entrati nella Casa Bianca ero giovane, in parte perché non mi concerneva da tanto vicino.

Ora c’è un politico che mi concerne da vicino, e tanto è cambiato nella mia visione. Il mondo è cambiato. Io sono cambiata. Le mie prerogative sono diverse. Il mio mondo è diverso. Le preoccupazioni sono differenti. Ma non importa davvero tanto. Tranne il fatto che mi colpisce e tanto.

Jacinda Ardern è diventata a sorpresa primo ministro della Nuova Zelanda nel 2017, quasi due anni dopo il mio primo arrivo in questo paese. Quarantesimo primo ministro, la più giovane al mondo, prima donna ad avere partorito durante il ministro (senza essere sposata). Ma dettagli record a parte, è un leader speciale. La trovi a servire il pubblico durante grigliate a feste nazionali, e guida la propria macchina, parlando con la gente per strada. Non credo sia mai stata vista rispondere male a nessuno o trattare qualcuno senza il massimo rispetto. In tempi di crisi risponde veloce, decisa ed empatica. Dopo l’attentato alle moschee di Christchurch poco più di un anno fa, in un mese ha fatto passare una nuova legge che bandiva armi non da caccia. Ha bandito in pochi mesi qualunque nuova spedizione per cercare petrolio nelle acque nazionali. Dopo la morte di una turista, ha chiesto ufficialmente scusa alla famiglia e alla comunità internazionale. Durante questa nuova crisi ha agito veloce, tiene il popolo informato quotidianamente, tiene video live sui social media (in tenuta completamente informale) per rispondere a domande, spiega al popolo perché sono state prese certe decisioni e come, il governo ha stanziato sussidi (già pagati) alle ditte per 12 settimane per mantenere il personale impiegato . Ci sarebbero tanti altri esempi. È professionale, ma gentile, empatica, decisa, reale. Non è un capo di stato. Per molti è la madre di questa nazione.

Vero. Persone non concordano con certe decisioni. Persone non la apprezzano. Il suo agire non è perfetto, e il governo neppure. Ma quando ci penso, sempre più mi rendo conto che ci aspettiamo dalle persone in carica di essere perfetti, quando non esiste una persona perfetta a questo mondo. Sono orgogliosa di vivere in Nuova Zelanda, fiera di vivere questo tempo sotto la guida di Jacinda Ardern. Bambini e adulti guardano a lei come figura di ispirazione.

Questo è il mondo ideale per me. Un mondo dove i bambini guardano al capo di stato e non solo lo riconoscono, ma vedono un eroe da copiare.

 


Entusiasmanti novità da un mondo in quarantena.

Se avete aperto questo articolo per via del titolo, be’ vi deludo subito. Credo. Ma visto che siete qui, probabilmente non avete nulla di meglio da fare. O sì? Se avete risposto positivamente è semplicemente perché prorogare non è un impulso da gente stressata. È semplicemente chi siamo.

Ma tornando alle news sensazionali. Innanzitutto sto scrivendo questo articolo. Il che è una sensazione. Vista la mia assenza continua da questo mio caro diario virtuale direi che lo si può definire tale. Secondariamente, arrivo dall’aver sfornato biscotti, e dall’avere una torta di carote in forno. La sensazione è più che altro la torta, o le carote. Non ho mai fatto una torta di carote. Le cose che non si fanno quando si raggiungono gli enta. Interessante nota culturale: la torta di carote svizzera (immagino quella italiana sia simile a quella svizzera..) e quella neozelandese sono due mondi. Più o meno, per darvi un’idea, due foto tratte a caso da internet:

Che poi io non so che cosa ho fatto. Ho usato la base per torta al limone che faccio sempre, e ci ho aggiunto carote, noci e cioccolato. Sì, cioccolato. Ormai ci metto i pezzettini di cioccolato dovunque.

Che altro potrei dire di questo mondo strano in cui siamo capitati. La gente improvvisamente è molto altruista. Oppure mostra che non sa gestire lo stress e attacca chiunque gli capiti a tiro. I capi di governo si stanno mostrando per quello che sono veramente, in positivo e in negativo. Io non capisco come la gente possa ancora credere loro e seguirli, con certe uscite. Mentre altri li stimo tanto.

Oramai più di mezzo mondo è in quarantena. Gli hashtag io resto a casa, o stay home sono dovunque. C’è chi non sa più cosa fare e la noia li terrorizza, altri non seguono le regole, altri stanno una meraviglia a poltrire sul divano, altri soffrono terribilmente. È una situazione talmente nuova per tutti noi, che è stressante per tanti. E io che a gennaio pianificavo di sorprendere mio padre e tornare dopo quattro anni a casa al suo compleanno per una visita (sorpresa…!). Ma ovviamente nulla quest’anno.

E allora vediamo cosa sono riuscita a fare in 20 giorni di quarantena in Nuova Zelanda.

Torte: tre (diverse, contando quella che è in forno).
Biscotti: due (volte, non due di numero, stesso tipo).
Portatili rotti: uno.
Portatili nuovi: uno (yippee).
Settimane a lavorare senza portatile: una (non mi era mai mancato così tanto avere un computer).
Giorni a lavorare: tredici.
Trimestri programmati: uno.
Libri letti: zero.
Volte che ho pensato di leggere qualcosa: almeno 20.
Fogli riempiti di disegni: più o meno 10…
Pagine di un libro da colorare colorate: tre (come le torte!).
Videochiamate con la famiglia: due.. (?!? — landalös..)
Videochiamate con zoom per lavoro: una.
Mangiato bontà brasiliane fatte in casa: due.
Uova di pasqua giganti disegnate, colorate e attaccate in finestra: una.
Uova di pasqua mangiate o da mangiare: zero.
Altri dolci di pasqua: zero (o la torta di carote è considerata tale per via delle carote e i coniglietti?).
Ore passate davanti a uno schermo per qualsiasi motivo: troppe.
Film della Ghibli guardati: quattro.
Di cui con il mio compagno: due.
Puntate di big bang theory guardate: almeno una stagione.
Altri film guardati: uhm… direi una decina, devo contarli?
Uscite per andare a fare la spesa: tre.
Uscite in quartiere non per fare la spesa: due.
Posta ricevuta dalla Svizzera: due (il CD di mio fratello, e una lettera da mia nonna).
Giochi scaricati sul telefono e poi disinstallati di nuovo: credo cinque.
Giochi scaricati sul computer (e non disinstallati): uno.
Tagli di capelli: uno (finalmente! non ce la facevo più..).
Torte probabilmente malriuscite: una (quella di carote, mi sa che l’esperimento non è riuscito, ma non l’ho ancora provata).
Video di gente che ha creato canzoni a casa riguardo la quarantena: tre..?

Credo che da Kiwiland sia tutto, quarantena passo e chiudo. Kia kaha. Restate a casa, state al sicuro, salvate vite. Un abbraccio virtuale.

Per 3 minuti e 25 di risate: Family lockdown boogie


Anniversario

È il 15 di gennaio. È sera tardi già. Ma è semplicemente assurdo, strano, impressionante, angosciante, che sia il 15 gennaio 2020. Non per il fatto che siamo nel 2020: quella è un’assurdità a parte. No, è per il fatto che era il 15 gennaio 2015 quando salutavo casa, pensando di stare a testa in giù per 9 mesi. Già un sacco di gente diceva avrei trovato un Maori e non sarei tornata. Non è proprio andata così. Non è un Maori, e sono tornata (per un po’). Ma sono sempre a testa in giù… Cinque anni dopo.

Tempo fa, dopo essere tornata in Nuova Zelanda, un’amica mi ha chiesto cosa mi mancasse della Svizzera e cosa ero felice non avessi più. Sarebbe anche ora rispondessi. Tralascio famiglia e amici ovviamente (che tra l’altro non sono cose, perciò non dovrei nemmeno nominarli).

Mi manca della Svizzera: gli eventi sociali a cui partecipavo e che attendevo (concerti locali, canto, coro, teatro, …); l’aceto alle erbe, il brodo della Oswald, le castagne.

Non mi manca della Svizzera: la pressione e il pregiudizio.

Amo della Nuova Zelanda: gli spazi grandi, il verde nelle città, i Pohutukawa; la sciallanza, intraprendenza e fiducia dei kiwi; la cultura mista; la torta di carote.

Non mi piace della Nuova Zelanda: al lato opposto del pianeta; la burocrazia è ugualmente frustrante anche a testa in giù; le case non isolate e la mancanza di riscaldamento centralizzato.

Kia Kaha – sii forte


Empatia portami via

Empatia è una parola complicata, con un significato incompreso, sia come termine scientifico che colloquiale. Se i miei professori di comunicazione dovessero leggere questo articolo, probabilmente verrebbero dall’altra parte del mondo per fucilarmi (dopo avermi fatto eliminare questo post e averlo sostituito con una definizione corretta del termine).

Nel colloquiale può significare tante cose, ma una di queste è un carattere che ho in comune con altre persone. Parlavo con una mia amica tempo fa, e ci siamo rese conto di quanto questa nostra specifica empatia ci condizioni quotidianamente.

Non è solamente piangere di fronte a film drammatici nella scena più triste del film o libro dove muore il protagonista a cui ti sei tanto affezionato nelle ultime due ore (o forse nei sette episodi precedenti). Ogni tanto è piangere di fronte a un video di due minuti di un salvataggio di un cucciolo. O piangere quando qualcuno dice qualcosa di forte, non in senso negativo o insultante, ma qualcosa che è vero, importante, magari un po’ ribelle, e che vuole migliorare le cose. Un discorso che ti fa capire qualcosa, che ti fa sentire insignificante… ecco, magari questo è qualcosa di cui solamente le persone empatiche hanno esperienza.

Non è solamente piangere. Piangere è una conseguenza di una persona empatica e sensibile e forse emotiva (ma se non sono la stessa cosa sono strettamente collegate di sicuro). È anche sentire una grande gioia quando qualcuno o una situazione attorno a te è felice. Il collega ha passato gli ultimi esami universitari? E via di saltellamenti vari. Lo sconosciuto di turno che incroci per strada ti sorride e saluta? Tu sorridi e la tua giornata è già migliore. Un amico ti manda un messaggio con una buona notizia? Tutto quanto diventa più rilassante. L’altro amico ti manda una brutta notizia? Il tuo cervello si blocca e tutto diventa più difficile da digerire, e la pazienza va a farsi benedire.

Ogni tanto è pure un viaggio nel tempo, e le emozioni sono lì in un qualche cassetto pronto ad aprirsi e a sommergere la tua giornata. È assurdo quanto un pensiero che fa scattare un ricordo, che ne fa scattare un altro, improvvisamente ti fa stare male, lo stomaco si stringe, l’ansia sale. E la ragione? Qualcosa ha fatto scattare un ricordo di un evento, in cui ti sentivi così, e seppure non ti ricordi l’evento in sè, l’emozione la ricordi e la rivivi senza sapere veramente perché. C’è da dire che se ricordi un evento felice, improvvisamente tutto si illumina. E in qualunque caso, tu stai semplicemente camminando per strada.

Non dimentichiamoci l’immaginazione poi. Quanti di voi pensano troppo a un episodio successo o a qualcosa che succederà e vi immaginate ogni possibile opzione. E per ogni opzione stomaco e cervello ti fanno fare un giro sulle montagne russe, come se lo stessi effettivamente vivendo in quel momento.

Il mio livello di energia funziona anche quello a empatia. C’è un equilibrio energetico che il mio sistema ha bisogno. Se le persone attorno a me buttano fuori un sacco di energia tutto il tempo, il mio livello scende drasticamente e quasi la mia energia si spegne. Se le persone attorno a me hanno un livello di energia normale o relativamente basso, io mi attivo e automaticamente ho più energia. Se l’energia è negativa però mi spengo, mentre se è positiva mi attivo. Solitamente le persone molto estroverse mi reputano silenziosa, introversa e timida. Le persone introverse o timide mi reputa energetica e attiva. Il punto è che non si tratta di punti di vista con me al centro di una gamma energetica. È che io cambio drasticamente a dipendenza di chi ho attorno e dell’energia che percepisco inconsciamente. La tua energia mi può attivare come può mandare il mio sistema in black out.

A essere sincera non so bene a cosa voglio arrivare. Forse solo esprimere i miei pensieri, e spiegare come vivo la vita. Puoi farti il pelo quanto vuoi, ma se il tuo sistema emotivo funziona a empatia e sensibilità a balla, le cose possono cambiare solo fino a un certo punto. E alla fin fine, non è solo negativo. Inoltre preferisco l’ipersensibilità a un cuore di ghiaccio.

Questo è tutto, da questa giornata di pigrizia assoluta dopo una crisi emotiva, vi saluto. E mangio qualcosa, che di emozioni ed empatia non si vive granché a lungo. Purtroppo.

Kia kaha.


Vita da immigrata: domande

Quando sei un’espatriata, ti passano sempre tante cose per la testa. Domande, dubbi, pensieri. All’inizio è diverso, poi arriva la quotidianità, poi arrivano quelle domande (di solito prima dagli altri) come “sei qui fissa o di passaggio?”, “hai intenzione di stare qui a lungo?”, “hai intenzione di vivere qui per sempre?”, “vuoi mettere su famiglia qui?”. E chi più ne ha più ne metta. Possono sembrare domande ovvie, ma non sempre lo sono. Io non sono scappata da casa, non sono venuta alla ricerca di un posto migliore, sono venuta in un posto che amo, ma per stare con qualcuno. Perciò quando queste domande mi passano per la testa, o se qualcuno me le pone, be’… spesso è il panico, i pensieri si ingarbugliano, e io non capisco più nulla. Allora cominci a chiederti cosa vuoi veramente.

Sì, casa mi manca. Sì, amo la mia nuova casa. Sì, è complicato restare qui. Sì, sarebbe ancora più complicato tornare a casa con lui. Io credo ancora che l’Europa sia un posto magnifico, così vario e ricco, e con bellezze culturali e umane immense. Ma con tutto quello che succede là, e con quel poco (di brutto) che succede qua, comincio a chiedermi se non mi convenga alla fin fine provare a restare, più di “a lungo”. Poi ne parli ad alta voce e le cose cambiano. Ancora vuoi tornare a casa, ma allo stesso tempo l’idea che le cose vadano diversamente, non sono più così terrificanti. E si torna a vivere alla giornata. Perché questo è quello che ho fatto negli ultimi quasi tre anni (pensare che sono qua da quasi tre anni spaventa un po’, specialmente visto che ancora è tutto un punto di domanda e temporaneo).

Ma una cosa è cambiata. Non mi fa più paura essere etichettata come espatriata, o immigrata, o emigrata. Anche se a essere onesta, un po’ strano lo è.

 

 

PS Una domanda me la pongo sempre, continuamente. Perché mai la Nuova Zelanda deve proprio essere dall’altra parte del mondo?

PPS Domande come quelle scritte sopra, non sono sempre le benvenute. Non tartassate le persone con tutte quelle. O almeno non gettatele lì tanto per che poi non ve ne frega nulla e lasciate la persona in totale panico! :D


Piccoli complessi umani

Lavorando con bambini ne vedi, e soprattutto senti, di tutti i colori. Oramai non mi sorprende più nulla. Ecco, no. In realtà quelle piccole personcine mi sorprendono ancora ogni giorno, tra frustrazioni e risate. Ma certamente mi hanno insegnato e mi insegnano tante cose e hanno cambiato tanti miei pensieri e mie idee. Se vuoi sopravvivere con bambini, devi imparare a vedere le cose da un’altra prospettiva, quella positiva. Riconoscere le difficoltà e lavorarci, senza dimenticare di apprezzare i tratti buoni, e sottolinearli. Se ascolti, impari tanto sul tuo corpo e la tua mente. So che mi sto facendo prendere dallo stress quando la mia pazienza va a farsi benedire, e so che sto meglio se sono tranquilla con i bambini, scherzo con loro e allo stesso tempo mi ascoltano e rispettano. Inoltre ho imparato qualcosa di molto importante: anche con un gruppo di bambini fantastici, che ti rispettano, ti ascoltano e sono educati, pure con loro ci sono semplicemente giorni no. Giorni terribili dove devi semplicemente navigarci, e sopravvivere per il giorno seguente, uno molto migliore.

Qualche giorno fa ho lavorato in un altro centro, con altri bambini. Ero accovacciata attorno a questo tavolino con i piccoli che disegnavano e chiacchieravano. Poi mi arriva una nuova perla. Un bimbo sui 5 anni mi chiede il mio nome (sì, gli altri mi hanno presentata al gruppo, ma figurati se su quasi 40 bambini tutti si ricordano o ascoltano), poi commenta “sembri un grande adulto”, e già diventa surreale, visto che ci sono bambini di 9-10 anni più alti di me. Ma non finisce lì ovviamente. “Sembri una mamma. Sei una mamma?” “No, non sono una mamma.” “Hai bambini?” “No, non ho bambini” “Perché se avessi bambini, saresti una mamma”. Ecco. Hai bisogno di queste spiegazioni ogni tanto, perché da soli non ci possiamo arrivare.

E poi ci sono quei bambini che ogni tanto ti licenziano perché non gli dai un foglio di carta immediatamente. O ogni tanto semplicemente per.

E quelli che omma’ quante frustrazioni. Anche rabbia. Ma alla fine, tranne per pochi eletti, anche quelli sono meravigliosi quando sono di buon umore.

Ci sono bambini a cui non è stato permesso di tornare. Vedo quegli episodi come fallimenti, perché non siamo riusciti a risolvere la situazione prima che esplodesse. Ma quegli stessi bambini quando mi vedono mi salutano con un sorriso enorme. Sono quei piccoli segnali che mi dicono e mi ricordano: anche un tentativo fallito porta a qualcosa ogni tanto. I bambini ricordano che ci hai provato, che c’eri e anche se non riuscendo a risolvere i problemi, hai lasciato un segno. E un messaggio per loro: ci sono persone che si prendono cura di te. È sempre un fallimento, ma non completo.

In queste situazioni ci sono affermazioni che non solo ho imparato a non prendere personalmente , ma pure ad apprezzare. Un bambino che ti urla che odia il centro e odia te, è un bambino che ti sta mostrando le proprie emozioni e sta cercando un motivo per quella brutta sensazione che ha dentro. E ogni tanto è un passo enorme per loro. No, non sono masochista e non mi piace essere insultata o offesa, né sono insensibile. Ma ho imparato a distaccarmi dalla situazione e rimanere calma. Ah, no certo. Non funziona sempre: ogni tanto ferisce e basta.

E poi ci sono quei bambini che un tempo erano un rompicapo, e omma’ quanti problemi. Ora commentano altri bambini “com’è che crea sempre problemi e litiga sempre con qualcuno?”. E ti rendi conto che tutto si può risolvere. Forse. Perché quelle piccole menti sono tutte così complesse.

Alla fin fine però io sono fatta così, e mi affeziono troppo facilmente a quelle meravigliose creature. Ti distruggono. Ma ti rendono la vita fantastica. Se tutto questo può avere senso.


Quella sottile differenza

Quando le differenze non sono ovvie, spesso ci si dimentica che esistano. È molto più facile confrontarsi con culture completamente differenti, che simili. Perché non ci si rende conto quando si fa qualcosa di sbagliato o diverso, e spesso non te lo dicono in faccia. Vengo da una cultura “occidentale”, e vivo in una cultura “occidentale”. Si vive il quotidiano, si va a lavoro, si guadagna abbastanza per pagare l’appartamento, il cibo, eccetera, si va al cinema, al museo, a passeggiare, a bere qualcosa con gli amici quando si può e non si è troppo pigri. Persone diverse, stessa vita. Ma ogni tanto mi rendo conto che in fondo in fondo, da qualche parte, abbiamo una vita diversa.

Quando qualche mese fa ho avvisato il mio capo che per via di medicamenti che stavo prendendo non stavo dormendo da un mese e che non ero presente al cento con la testa, la sua risposta è stata “avevo notato che sei scesa al livello di una persona normale” (e di prendermi cura di me stessa). Forse sarà anche il mio carattere, per cui se faccio qualcosa ho bisogno di farla perfetta, ma certi errori e ritardi che ho fatto durante quel periodo, a casa non mi sarebbero stati perdonati con un semplice prenditi cura di te stessa. Improvvisamente mi sono tornati in mente tutti quei commenti per cui i kiwi sono troppo rilassati a lavoro. Mentre noi europei troppo spesso siamo abituati a dover dare il 100 e più se vogliamo essere presi sul serio. Non fraintendetemi, la mia équipe è fantastica, fanno il loro lavoro benissimo, ma solitamente non vogliono troppa responsabilità sulle loro spalle, o perlomeno non ufficialmente, e sono visibilmente contenti che qualcuno faccia quel lavoro per loro. Mi sono sempre detta che se fossi rimasta a casa, non avrei mai avuto le stesse opportunità che ho avuto qua. Immagino che alla fine, la pressione e le pretese che ho vissuto per 25 anni prima di venire qui, siano stati un fattore determinante a farmi salire la scaletta in pochi mesi. Io ho sempre solo pensato che stessi facendo quello che mi veniva richiesto. A quanto pare no. Percezione culturale.

Tra l’altro. La burocrazia è dolorosa dappertutto. Ma qui sono dei geni a tutti i livelli in tutte le organizzazioni. Dolore. E il mio lavoro è restare a galla nella loro genialità che tenta di mandarci a fondo. Fortuna ho imparato a nuotare da piccola.


Piccioni ribelli

Avete in mente tutte quelle storie sui piccioni che fingono di essere tonti, ma in realtà si stanno preparando a governare il mondo? Quelle storie raccontate da gente che non ha nulla di meglio da fare? Come me proprio ora?

Ebbene, ieri ne ho visto un assaggio. I piccioni si stanno attivando. Sono uscita di casa, e all’incrocio a due passi, sia all’andata che al ritorno, i piccioni si sono piazzati in mezzo alla strada e per ogni auto che passava svolazzavano via lentamente per ritornare a piantarsi in mezzo alla strada di fronte alla prossima macchina che puntualmente doveva frenare per non investirli. Qualche ora più tardi, mentre stavo servendo merenda ai bambini a scuola, un gruppo di piccioni è improvvisamente apparso davanti alla porta aperta e stava per entrare a rubarci i fantastici pancake che avevo fatto. Non ho idea se fossero gli stessi o meno, ho mandato un fidato bambino a prendersi cura di loro e ho continuato a servire merenda.


Meraviglie

Sai che il mondo

Ecco, questo è quanto stava in una bozza datata Aprile 2018. E chissà cosa volessi scrivere. Di meraviglie però ce ne sono continuamente. Pure nei giorni bui, quando una piccola meraviglia può illuminarti la via.

Sinceramente, parole a vanvera oggi.

Ma un pensiero è fisso in testa da venerdì 15 marzo, giorni seguenti inclusi. 2019 stavolta. La maggior parte del mondo ricorderà questo giorno per le incredibili marce dei giovani che hanno richiesto un mondo migliore. Noi in Nuova Zelanda lo ricorderemo come il giorno in cui il paese è caduto in un abisso, per svegliarsi e venirne fuori forte, e con un cuore enorme. 50 morti, altrettanti feriti gravi, per mano di un bianco estremista. Improvvisamente si sono dovuti fare i conti con un problema buttato sotto banco, scartato come non pericoloso o serio. Il paese ha reagito. Il paese ha mostrato che la comunità islamica è nei cuori di tutti. Una nazione è andata in lutto, e ha detto non qui, non più. Siamo un solo popolo. Il governo ha bandito la vendita di armi automatiche. La comunità non islamica si è svegliata e ha dovuto fare i conti con un razzismo ignorato. E ha detto non più, non qui. Il primo ministro ha messo in chiaro che razzismo ed estremismo non ci possono stare in una nazione con oltre duecento etnie, e che l’unica cosa di cui abbiamo bisogno al momento, è “amore e sostegno per tutte le comunità islamiche”.

Sono orgogliosa di essere qui, di fare parte di questo paese, orgogliosa del primo ministro, una donna coraggiosa. Abbattuta dall’atto di terrorismo che ha sconvolto la Nuova Zelanda. Non ho idea di come andrà avanti, di quanto sarà dimenticato e quanto ricordato, di quanto sarà fatto e quanto solo parlato. Ma tre piccole parole possono significare nulla, quanto il mondo. Loro. Sono. Noi.

Sai che il mondo ha ancora speranza, quando ci si ritrova nel campo di battaglia, e trovi loro.

Le meraviglie.


Gerarchia, cultura e lingua

Ero in mezzo a una chiacchierata con una collega, fuori lavoro, quando ho menzionato la stranezza di chiamare tutti per nome. L’assicuratore con cui sono in contatto via mail ha da subito risposto chiamandomi per nome, nessun signora, nessun cognome. Ai colloqui di lavoro tutti si presentano con il nome, niente cognomi. Io faccio una fatica assurda a chiamare per nome il direttore della scuola dove lavoro (chiaramente in una posizione più alta della mia e più anziano di età), o rispondere a uno sconosciuto in una email formale chiamandolo per nome (infatti non ho mai fatto nessuno dei due). E ciò, nonostante io veda tutti quanti farlo e sembri essere così naturale. Per il resto a lavoro e in giro non ho mai avuto problemi, anzi aiuta a sentirsi a proprio agio (quanto meno stress e quanta meno pressione!). Ma la mia collega ha trovato strano il mio commento, e ha cercato di capire quale sia il motivo di questa differenza culturale. Io abituata a una struttura gerarchica trovo strano la familiarità con cui si interagisce qui in Nuova Zelanda, lei abituata a questa familiarità trova strana la gerarchia e netta separazione di cui le parlo. Un fattore di separazione tra le due culture è sicuramente la lingua: in inglese dai a tutti del “you”, non esiste una persona formale, dare del Lei a qualcuno. Ma allo stesso tempo la stessa collega mi ha detto che in Sud Africa (paese anglofono anch’esso) hanno una forte gerarchia sociale. Perciò da dove viene questa differenza culturale? Quanto influisce la lingua, quanto l’esperienza di un popolo, quanto la cultura influisce sulla lingua?

 

Vi lascio con due video interessanti, sulla lingua. Il primo in italiano su connotazioni differenti secondo il genere, il secondo è un Ted Talk, in inglese, sul linguaggio e il pensiero in generale.

Monologo di Paola Cortellesi

Ted Talk – How language shapes the way we think


La vita

Sai che tutto quanto andrà bene, quando ti ritrovi a reimparare a fare a maglia perché una bimba a lavoro ti chiede di insegnarle. E un’altra bimba mentre la aiuti a fare qualcosa ti chiede “ma almeno ti pagano bene per fare questo?”. La vita è meravigliosa.


Quando l’umanità ti sorprende

Ultimamente mi sono connessa alla pagina zero waste locale, per consigli principalmente. Chiedevo se qualcuno sapesse dove trovare del tè di timo e verbena, e ho ricevuto del timo fresco gratuitamente (o meglio, in cambio di alcuni cioccolatini che avevo fatto qualche giorno prima), che sta facendo radici e si spera diventerà una qualche piantina durante l’inverno. Questo scambio di risorse tra perfetti sconosciuti mi riempie sempre il cuore.

Ma oggi un’altra persona mi ha scioccata. Ero al negozietto di frutta e verdura nel quartiere. Ci sono già stata altre volte, ma non lo frequento troppo spesso. Quando mi sono trovata alla cassa mi sono resa conto che avevo solo il borsellino del mercato, senza carta, e ormai senza contanti perché spesi tutti al mercato. Ho detto al cassiere (quasi ogni volta c’è qualcun altro) che sarei andata a casa a prendere i soldi, se potevo lasciare la spesa lì per 10 minuti. Mi ha chiesto se vivessi nel quartiere, e poi mi ha detto di prendere su tutto, mi ha fatto uno scontrino e detto di pagare la prossima volta.

Sono piacevolmente scioccata. C’è ancora fiducia negli esseri umani.


Interazioni

Quando vivi lontano da tutto e tutti, lontano da quella che è casa tua, piccole cose hanno una grande importanza. Sono quei piccoli messaggi che ti arrivano a caso, da persone a caso, un saluto, un link a un articolo su cosa sta succedendo da quelle parti, un abbraccio, una emoticon, una foto, … Sono questi i piccoli segnali che ti dicono “casa è ancora lì”, non solo la tua famiglia e i migliori amici. E allora puoi andare avanti in questa tua vita parallela. Tutto va bene e puoi immergerti di nuovo nel quotidiano fatto di lavoro e interazioni. Perché se anche il tuo presente e futuro è altrove, sai che il tuo passato è lì, a sostenerti, e ad aspettarti. Interazioni. Non ci si rende sempre conto del lungo viaggio che anche le più insignificanti fanno con noi.


L’ultimo giorno dell’anno

È l’ultimo giorno dell’anno. È quando di solito la gente guarda indietro nel tempo, e si rende conto di cosa si sia raggiunto. Non so che fine abbiano fatto gli ultimi 12 mesi, ero così intenta a trovare un po’ di stabilità e compilare burocrazie varie, inoltrare una richiesta di visto, registrarmi all’ambasciata, traslocare, cercare lavoro, cercare lavoro di nuovo, inoltrare un’altra richiesta di visto e vivere giorno per giorno, avere soddisfazioni lavorative, creare nuove amicizie che ripartono per chissà dove, esplorare posti mozzafiato. Faccio fatica a realizzare un altro anno sia passato. Un altro anno lontano da casa, così veloce e sfuggente. I bimbi crescono, la vita va avanti, e io non ho idea di cosa stia succedendo. L’altro giorno facebook mi ha ricordato un post di questo blog di due anni fa, quando nel limbo in cui ero sapevo che il mio posto era a casa. Ora sono di nuovo qui, interessante come le cose cambino, come i tentativi di autoconvincerci non sempre funzionino. Casa manca, tutto questo tempo lontano so che mi sto perdendo qualcosa, ma ora, o per ora, il mio posto è in questa nuova vita. A capire quanto sia difficile emigrare, e perché ne valga la pena, perché la gente continua a lottare per questo diritto.

Sono sicura che anche tra chi è a casa, il tempo passi troppo in fretta, tra mille affanni e mille impegni, nella quotidianità di una vita sempre uguale e sempre diversa. Auguro a tutti quanti un anno di soddisfazioni, di pause, di decolli, di avventure, di relax :) Auguro a tutti quanti che riusciate a vivere la vita, e a non lasciare che la vita vivi voi.


I bambini che ti salvano la giornata

Passi ore, giorni, mesi a disperarti per quanta plastica ci sia in giro. Per tutti i sacchetti di plastica che cercano di rifilarti al supermercato, e per tutti quelli che la gente semplicemente accetta (e butta via). Ti disperi a guardare le strade pulite, e tutti i rifiuti fuori strada come quell’immagine di chi pulisce la stanza piantando tutto sotto il tappeto o letto per un apparente pulizia.

Poi a lavoro una bimba di sette anni viene da te, e ti chiede se dopo merenda per favore può avere un sacchetto per raccogliere i rifiuti dal parcogiochi. L’ha già fatto, ti rassicura. Ti salva la giornata, e pensi che allora le speranze ci sono ancora. Anche se, in realtà, ti ha chiesto un sacchetto di plastica. Ma come puoi lamentarti a questo punto?

Altro giorno, altra bambina di otto anni, al parcogiochi. L’altalena le ha dato un pizzicotto. Mi pare giusto chiederle se l’altalena sia viva, e in questo caso quale sia il suo nome (altalena), e quale il suo genere (in inglese è “it”, non ha un genere). La risposta ovvia: è un transgender. Ma non senti malizia, e allora non puoi fare a meno che ridere. E si passa ad altri discorsi. Nuova generazione.


Misteri di questo mondo

Avevo un phön, un asciugacapelli, di quelli che funzionano una meraviglia, tanto che me lo sono portata dall’altra parte del mondo. Ben due volte. Ma la seconda non ce l’ha più fatta, dopo qualche settimana ha deciso di autoimmolarsi, si è bruciato dentro e lentamente si è spento. Il suo successore ha deciso di mettere tutto sè stesso nel suo operato. L’ho attaccato alla presa, acceso la presa, acceso il phön, asciugato i miei capelli, spento l’asciugacapelli, … e questo è rimasto acceso. L’unica via per spegnerlo è stata spegnere la presa. Poi ieri, dopo tre mesi circa, ha improvvisamente realizzato che se il tasto è sullo zero, non dovrebbe funzionare. Rivelazioni fantastiche, un click e si spegne. E ora funziona normalmente. I misteri della vita… come le consegne postali fallite alle 5.24 di mattina. Come la macchina che non si accende più, e un’ora dopo c’è un blackout generale lungo tutto il blocco.

E si ripescano il domino con cui ci si mette a costruire piste varie, e si esce dall’altra parte della strada a prendere candele, un puzzle da mille pezzi e carte da gioco (se poi ci si accompagnano i dadi anche meglio). Il menù è da cambiare perché non funziona il forno, m a almeno una nota positiva di avere il fornello a gas è che puoi ancora cucinare senza corrente.

A tutto questo si aggiunge che a inizio mese era la festa della donna. Festa che ho sempre ignorato, pensandola un’ennesima idea commerciale. E improvvisamente, perché qualcuno è rimasto sbalordito dal mio nominarla, sono andata alla ricerca del suo significato. E mi sono ritrovata a 27 anni a scoprire che la giornata internazionale della donna non è una festa, ma la commemorazione dei diritti che la donna ha raggiunto e ancora deve raggiungere. Un significato un po’ più grande di mimose regalate, un po’ più lotta per l’uguaglianza e diritti umani. E allora celebriamola, ricordiamola, che qua di mimose non ce ne sono neanche.

E poi, nella quotidiana vita post trasloco, si invitano amici a cena e improvvisamente lui ti chiede cosa è successo. Perché il brasiliano cucina vegetariano in pentola, e io mi metto a friggere frittelle vegane per gli ospiti. Solitamente lui, da bravo brasiliano, frigge, carne. Sono episodi così. Che ti fanno rendere conto di quanto ognuno sia perso nelle proprie abitudini.

Passeggiavo, l’altro giorno, pensando al fatto che in Nuova Zelanda i vetri sono singoli, i doppi vetri stanno arrivando pian piano, mentre in Svizzera le nuove finestre ne hanno pure tre. E l’isolamento termico di tetto e pareti figurarsi. Le vecchie case coloniali inglesi sono ancora come erano una volta, lentamente le stanno ristrutturando, isolando meglio i tetti. La mancanza di riscaldamento centralizzato è ancora un piccolo mistero per me, essendo le temperature molto simili a quelle svizzere. Poi però in tutti questi pensieri mi sono ricordata di aver notato l’assenza di tapparelle o persiane a protezione esterna delle finestre della casa. E camminando per strada ho cominciato a guardare ogni singola casa alla ricerca di persiane. Niente, assolutamente niente. Vetro singolo e niente protezione esterna, bici senza lucchetto nel cortile sul retro senza alcun cancello a bloccare l’accesso. E cosa ti vanno a rubare? Il vaso con la pianta di rosmarino! Maledizione. E avevo giusto pensato di trapiantarla pochi giorni prima. E sono quasi sicura che in questo mondo qua a testa in giù, io sia l’unica a usare il rosmarino per cucinare e non come pianta decorativa. Questa è Wellington ragazzi, questa è la capitale di uno dei paesi più a sud del mondo.


Otto stranieri intorno a un tavolo

Si è formata una tradizione nel gruppo in cui sono da poco entrata a far parte. Un pranzo o una cena ogni volta cucinato o proposto dalla combriccola di una diversa nazione. Si è passati dall’Italia (ho rinnegato le mie origini e mi sono messa a cucinare lasagne), al Brasile, alla Tailandia, alla Corea dell’altra sera. Improvvisamente qualcuno guarda intorno al tavolo ed esclama: ragazzi è la prima volta! Siamo tutti di nazionalità diversa!

Otto persone, otto nazionalità, tre continenti… Svizzera, Brasile, Tailandia, Giappone, Taiwan, Colombia, Cile, Francia e Corea. Intorno a un tavolo a mangiare e a ridere tentando di imparare dieci altre lingue, o forse solo sette. Perché come d’abitudine ormai a un certo punto si comincia a prendere in giro qualcuno, a chiedere come si dice questo e quello, perché mai non si riesce a pronunciare quel suono che è così facile, no questo è diverso, ma è uguale, parole che in diverse lingue significano completamente altre cose che non sempre sono così simpatiche.

Condividendo un capitolo delle nostre vite che presto si separeranno di nuovo, dettagli che rendono la vita un’esperienza migliore, dettagli che rendono triste salutare chi riparte per un altro capitolo, dettagli che ci fanno avere fiducia nelle parole “ci rivedremo, qui o là”. Otto stranieri in un continente straniero intorno a un tavolo, a vivere appieno la bellezza delle nostre culture. Per un momento fuori dal mondo.


Ogni giorno, ogni paese

Ogni giorno un’Elvetica si sveglia e si ricorda di essere in Kiwilandia. Ogni giorno una Svizzera si sveglia e si alza per spegnere quel fin troppo presto suonante telefono. Ogni giorno un’Elvetica si alza e va a svegliarsi sotto l’acqua. Ogni giorno la quantità di luce quando esce dalla stanza le dice se una maglia è abbastanza o se ci vuole anche il maglione. Ogni mattina la Svizzera prende cibo, zaino, cuffia, sciarpa e giacca da vento e si immerge nella inoltrata primavera di Wellington, pronta (o quasi) per una nuova avventura.
Un’avventura in quel di un paese che nonostante tutto ho scoperto avere un sistema penitenziario che è uno schifo ed essere secondo solo agli Stati Uniti d’America, quando si parla di tasso di incarcerazione. E questo nonostante la criminalità è in continua discesa da due decenni, sia in percentuale che in numero netto. Una nazione che nonostante gli sforzi e la buona volontà, ancora porta su di sé l’ombra della colonizzazione dimostrato da 51% della popolazione in prigione di origine māori, quando compongono solo il 14% della popolazione totale. Un paese dove il partito oppositore promette più polizia per pattugliare i centri commerciali.
Eppure ogni giorno io cammino un’ora e mezza fino a casa attraverso tutta la città, di notte le donne camminano da sole per le strade senza avere né paura né problemi (testimone ne è pure una giudice locale), non si sente parlare di violenza se non nelle statistiche e dai politici che vogliono mandare in panico la popolazione, e io mi sento più al sicuro che in Svizzera. Parlare con gli sconosciuti è normale, la gente è tranquilla e rilassata (tranne quando si è per le strade di Wellington, sembrano sfogarsi tutti quanti alla guida qua). Il sistema di informazioni e gestione delle emergenze funziona mica male. Ma pure alla fine del mondo, nonostante la gente, nonostante la popolazione, il sistema e i politici sono uguali dappertutto. Già.

Buona giornata. E non credete a chi vi dice di andare in panico. Solitamente non ce n’è motivo. A presto gens


Appunti di un’anima un tempo razionale

Sono qui, dall’altra parte del mondo, da ben 9 giorni ormai. Il tempo passa velocissimo, sembra troppo, non riesco a concepire che è già passata più di una settimana da quando sono arrivata, che sono passati 11 giorni da quando ho lasciato il territorio elvetico. Sono tornata, con solo una persona ad accogliermi, quella importante però. Tante altre sono presenti sul territorio ma chissà quando (e in parte se) le vedrò. Sono tornata, ma arrivata in una cittadina a me praticamente sconosciuta, eppure mi sono sentita subito a casa, nel posto giusto. E le strade, i colori, le persone… è come se quei nove mesi in mezzo non ci fossero mai stati, come se questo luogo avesse continuato a essere parte di me e io parte di esso. Attraverso la cittadina la prima volta e incontro tre ristoranti tailandesi, il primo è quello autentico, il secondo è quello originale, e il terzo è la sua casa. Qui vento e pioggia sono più o meno all’ordine del giorno, significa che ho già inquadrato i momenti in cui non piove e il vento non mi spinge a destra e sinistra come bel tempo. Se continuo di questo passo mi terrò bene in forma, anzi con questi passi visto che scarpino almeno ogni due giorni fino in città e/o ritorno. Sui 10-15 chilometri al giorno. Ma qui si ha tempo. E nonostante ciò batto il tempo predetto da google maps e ci ho messo solo 1h25 a tornare i miei 6,7km verso casa. Ma è in discesa, tendenzialmente. Presto spero di avere una bici, almeno riduco il tempo di percorso casa-scuola e mi aggrego al gran numero di pedalatori. Mentre io cammino comunque la gente se ne sta tranquilla in coda per entrare in un negozio di apparecchi elettronici (apparentemente c’era una qualche grande azione oggi) e la linea si snoda lungo il marciapiede, arriva all’incrocio, gira l’angolo e continua lungo altri cinque edifici. Tranquilli, sereni, composti, ordinati. Solo in Germania ho visto succedere una cosa simile.

C’è chi mi ha esplicitamente chiesto (o persino richiesto) se una volta ripartita avrei ripreso con i miei diari. In realtà ero convinta avessi solo due o tre lettori… ma pare che gli stalker si diano da fare qui. :) Non so quanto scriverò ancora prossimamente, essendo che ho cominciato un corso all’università. E nonostante sia solo di tre mesetti, già mi sento che per la prima volta avrò una vera esperienza di vita da campus. Vicino al centro città. Numero di edifici ancora indefinito collegati tra loro e per cui ci sono bisogno mappe per arrivare a destinazione. 3000 qualcosa studenti internazionali ogni anno. Ho in classe cinesi, giapponesi, srilankesi, ruandesi, tedeschi, papuanuovaguinesi, solomonislandesi. Interesting! Altro che un dipartimento in un edificio in zona industriale di Lugano :P

Prima della mia partenza tanti hanno avuto come primo pensiero che io stessi scappando dalla Svizzera, dall’Europa. No. Non sto fuggendo da una situazione sociale e di lavoro difficile e complicata. Non sto scappando da casa mia, anzi, mi sento in colpa perché vorrei fare la mia piccola parte per migliorarla. A dirla tutta ho rincorso quella parte del mio cuore che la voleva saper lunga. Mi sono sorbita altre trenta ore di volo, sono lontana da casa, dalla mia famiglia, dai miei amici, dalla mia vita precedente e che già mi manca, il mio futuro è pieno di dubbi e domande. Ma essere qui con lui è la cosa più naturale del mondo, ed essendo questo un paese che ho imparato ad amare in passato, è semplicemente il posto giusto dove essere ora. Probabilmente tra qualche settimana comincerò ad avere le mie crisi esistenziali, poi vi scrivo eh, non preoccupatevi. Ma nel frattempo, ebbene sì lo avete capito e lo ammetto, sono di nuovo a testa in giù in Nuova Zelanda, per Amore. Ora ditemi: sono finita inconsapevolmente in un film romantico o in un romanzo d’amore? Perché, sinceramente, ancora mi sembra assurdo.

Cheers, see you later guys!


Riordinare la vita

Assolutamente non è facile. Sono in un periodo un po’ caotico, un po’ irregolare, un po’ assurdo. Ma pian piano sto facendo ordine tra 27 anni di vita. E non sto parlando metaforicamente. Mi si prospetta un trasloco dall’altra parte del mondo. E non solo. La casa dove ci sono 27 anni della mia vita non sarà più qua ad aspettarmi con la terza stanza di una figlia ormai fuori casa e solo in visita. Ho quindi qualche mese per rovistare tra le mie cose, riordinarle, incasinarle, buttarle, salvarle. È inutile: non si trovano solo pezzi di liceo o di università. Si trovano pezzi di vita, ricordi, passioni, nomi scritti ripetutamente, emozioni e sensazioni trascritte e disegnate, pensieri astrusi e alquanto profondi che sai essere opera della tua stessa mente, ma che avevi rimosso e non riconosci più. Nonostante ogni tanto un campanellino suoni. Gioia e disperazione di tutta una vita racchiusi in diari e piccoli (o grandi) oggetti. Specialmente ad avere il collezionismo nei geni.
Lentamente sto buttando via pezzi della mia vita. Ogni tanto con leggerezza, ogni tanto con sensi di colpa. La mia stanza ha talmente tante cose in meno stipate tra le sue mura, che l’aspetto è sempre lo stesso. Già. Però sono ore di lavoro che una alla volta e con calma mi sto togliendo di torno. Devo visualizzare l’ammasso di cose buttate nel cestino, le pile enormi finite nella carta straccia, gli oggetti che hanno trovato una nuova casa. E ripetermi che sono ore e ore di lavoro che non devo più fare. Fa proprio bene buttare via e lasciare andare. E riordinare almeno la propria vita, se là fuori già il caos ci sta beffeggiando.


Risate genetiche

In fondo è poi una questione di geni se si è collezionisti oppure no. È nel DNA, non si può fare molto al riguardo. Però ho pure dei geni consapevoli, che mi ricordano che ho la tendenza a fare tutto all’ultimo. E quando si tratta di un trasloco che si prospetta dopo 27 anni nella stessa casa, forse non è il caso. E allora nei giorni liberi ho cominciato già da qualche settimana a svuotare un ripiano, poi dei cassetti, e una scatola qua, una là, un altro ripiano, cose sparse, … Ed è inutile: se hai il collezionismo nei geni ti ritrovi in mano vecchi reperti storici datati liceo e università. Citazioni, disegnini e comunicazione tra compagni, biglietti e regali di compleanno, ricordi di fine scuola, fantastiche note incomprensibile in rosso e blu, dei meravigliosi oscar uaild con dedica all’unica che sta facendo gli esercizi in classe, foto sparse, lettere con tutti i soprannomi possibili immaginabili che chi se li ricordava più?! E chi più ne ha, più ne metta… Far pulizia a questo punto diventa pure divertente. E per non rischiare di impazzire a restare troppo tempo a ridere da soli si sfrutta la tecnologia odierna, si fa una foto ai reperti si condividono gli appunti con la compagna di università con la quale li si scriveva e si crea un gruppo su whatsapp con alcuni liceali e si comincia a rompergli le scatole per non sentirsi l’unica idiota che se la ghigna. Poi se si siano messi a ghignare anche loro o se hanno risposto solo per compassione, non si sa. Ma per una questione di geni la vita diventa più allegra. Almeno per un po’.